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Del bicchiere mezzo pieno

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Paolo Massobrio

Del bicchiere mezzo pieno

Quando nella vita conta lo sguardo
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Un libro di ritratti, in cui la vita professionale di Paolo Massobrio, giornalista dedito al mondo del gusto, si intreccia con quella di cinquanta personaggi che hanno saputo cambiare i loro percorsi grazie a uno sguardo di positività sulla vita e sul proprio lavoro. E ogni incontro narrato, anche dietro le quinte dell’ufficialità, diventa una provocazione, talvolta qualcosa che ha dell’inaspettato e della sorpresa, per cui il bicchiere di vino con ognuno, alla fine, risulta sempre mezzo pieno.

La carpa della copertina prende ispirazione dalla cultura giapponese, la carpa koi che - dice Tomas Navarro in Wasi Sabi: “rappresenta la solidità degli ideali e la volontà di concretizzare gli obiettivi: il suo esempio spinge gli uomini a coltivare valori come la pazienza, la forza, il coraggio, la capacità di mostrarsi resilienti e di superare gli ostacoli” 

GLI INCONTRI SPECIALI DI UNA VITA

Quale piega può prendere la vita? Dipende, vien subito da rispondere, tanto per non lasciare il foglio vuoto. Ma da che dipende? E qui, grazie anche a quei lunghi mesi di silenzio e riflessioni che hanno caratterizzato la primavera del 2020, una bozza di risposta ho iniziato a presentirla. Dipende dallo sguardo, ossia da come uno guarda un bicchiere: può essere mezzo pieno oppure mezzo vuoto. Che può anche voler dire: c’è chi si accontenta e chi non è mai sazio. Ma anche qui il tema, se non resta sulla superficie, non è mai quantitativo, ma di sostanza. Cosa riempie veramente la vita? Ora, se quest’ultimo quesito è la conseguenza della domanda che campeggia all’inizio, diciamo subito che questo libro è come un vaso di Pandora, che scopre tante cose. È come quei cassetti mai aperti, che siamo andati a rovistare perché il lockdown solleticava alcuni angoli dell’ esistenza, facendo venire a galla riflessioni; mentre la superficie sventolava la bandiera degli slogan del momento #andratuttobene, #torneremo come prima. Ma veramente desideravamo che tornasse tutto come prima? Questo me lo ha domandato Alberto di Belluno, scrivendo: “È un periodo paradossale: da un lato il dramma della morte, la sofferenza e la paura; dall’altro un’intensità nelle giornate e nei rapporti mai accaduti prima”. Certo il timore che questo virus si porti via il lavoro, gli affetti più cari, con le conseguenze drammatiche di un futuro che è tutto da inventare ci fa dire che c’è anche un aspetto di normalità, o meglio di stabilità, che è più che desiderabile.

Su Avvenire, il quotidiano dove ogni mercoledì svolgo le mie riflessioni nella rubrica “Appelli di gusto”, il 24 marzo Paolo Pilieri scrive: “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era un problema... Tornare da dove siamo partiti? Ai virus culturali che avevamo?...Certo, il Paese in ginocchio che troveremo non sarà quello di prima. E bisognerà rimboccarci le maniche. Ma per andare verso quale direzione? La stessa di prima? È una domanda che abbiamo il dovere di farci oggi, pur tra le lacrime. È il sacrosanto momento nel quale elaborare il lutto di un passato politico ed economico che ci ha consegnato a una normalità che normalità non era affatto. Tutto quel che la normalità respingeva, dagli accordi sul clima, agli investimenti in sanità pubblica, allo stop al consumo di suolo e al traffico, alla tutela della biodiversità, agli investimenti in ricerca, cultura e manutenzione del Paese, a incentivare la buona agricoltura (e non l’altra), al dare dignità al lavoro sconfiggendo la mentalità che “fare il nero è necessario”, all’economia circolare e fondamentale al posto della tradizionale, al perseguire corruzione e furbizia “senza se e senza ma” e così via, deve ora essere messo in cima all’agenda pubblica di una normalità che va costruita proprio ora, nelle macerie in cui siamo”. 

Queste righe me le sono segnate come fossero un manifesto, così come le tante riflessioni degli amici, scorgendo la contraddizione che non per tutti è proprio così. E così succede che sei vai al supermercato, ancora oggi, ogni spunto è buono per provocare lo sfogo di una tensione interiore, come se il lutto non fosse stato elaborato e la ricerca di una normalità diventa nevrosi.

Questo libro dunque nasce nel periodo che tutti ricorderemo a lungo, in cui il 1° marzo, sul Corriere della Sera, un sacerdote amico, don Julian Carron, ha scritto una riflessione che per me è stata illuminante.
Più di qualunque discorso rassicurante o ricetta morale, quello di cui abbiamo bisogno è di intercettare persone in cui possiamo vedere incarnata l’esperienza di una vittoria: l’esistenza di un significato proporzionato alle sfide del vivere. Non c’è niente di più facile: in momenti come quello attuale, quando lo spavento domina, tali persone sono così rare che le si nota immediatamente. Il resto non serve.

Eccolo lo sguardo che fa la differenza. E quante volte l’ho incontrato in questa vita; quante volte il modo di guardare ha cambiato il corso di una storia, producendo il virus di una positività. E quante volte ho pensato che avrei voluto stare il più possibile proprio con quelle persone, quasi per alimentarmi di quel modo di guardare che non era, ancora, il mio. 

Nelle pagine a seguire i racconti scorreranno come un album, con immagini e storie di persone di umanità varia, che ho avuto la fortuna di incontrare. Alcune sono ancora in vita, la maggior parte, altre non ci sono più ma continuano a dettare quello sguardo nel presente che può cambiare le cose. Ci sono uomini del vino e della terra, giornalisti, cantautori, personalità religiose e atei. Sguardi che hanno dato colore alla vita stando sul terreno di quella che si chiama amicizia, che è pane e sale, ricordava il “grappaiolo angelico” Romano Levi, in una delle sue folgoranti etichette disegnate a mano. 

Lo stesso che nei primi giorni di marzo mi ha ricordato un’altra immagine folgorante: “Siamo angeli con una sola ala”. Destinati, dunque, a stare insieme, possibilmente con uno sguardo aperto a tutte le possibilità di una risoluzione. Che talvolta possiamo immaginare, mentre altre proprio no, giacchè fanno parte di quello che il mio amico americano Tony Hendra chiama “il grande pacco dono”.

Paolo Massobrio

PAOLO MASSOBRIO, nato a Milano nel 1961, si occupa da circa 30, come giornalista, di economia agricola ed enogastronomia. Collabora ai quotidiani La Stampa, Avvenire e a vari periodici. È direttore responsabile del portale www.ilgolosario.it e della rivista Papillon, nonché autore della guida best seller Il Golosario. 

Tra le altre pubblicazioni edite da Comunica: l’Ascolto del vino, Adesso 365 giorni da vivere con gusto, Amati! volersi bene attraverso il cibo, e il Gatti Massobrio, taccuino dei ristoranti d’Italia.

È direttore della collana “I Libri del Golosario” per Cairo editore.

È fondatore e presidente nazionale del Club di Papillon, collabora a radio e tv ed è giudice nella trasmissione La Prova del Cuoco su Rai 1. Tra i numerosi riconoscimenti, il premio Saint Vincent di giornalismo e la nomina nel Comitato delle Firme di Expo 2015. Ha collaborato al Magazine del Padiglione Italia di Expo 2015. Ogni anno in Golosaria celebra con il collega Marco